Figlio del boss esce dal carcere: fuochi d'artificio a Marcianise

Figlio del boss esce dal carcere: fuochi d’artificio a Marcianise

Scarcerato Camillo Belfiore. Il significato dei fuochi

Scontata la pena di 6 anni, si sono aperte le porte del carcere per Camillo Belfiore, figlio del boss Domenico.

L’uomo, 38 anni, era stato incarcerato nel giugno 2011 dopo essere stato “incoronato” reggente del clan in sostituzione del padre, a sua volta arrestato prima di lui.

Il rione di Marcianise in cui risiede la famiglia Belfiore lo ha accolto con una manifestazione pirotecnica. Fuochi d’artificio per testimoniare la vicinanza degli abitanti del quartiere al giovane nel giorno della riacquistata libertà.

I fuochi d’artificio, nel linguaggio della ndrangheta stanno a significare eventi importanti. Come ad esempio la scarcerazione di un “uomo di rispetto”, l’arrivo di un’importante partita di droga, l’eliminazione di un pericoloso boss rivale, ecc.

Domenico Belfiore aveva, secondo l’accusa che ha portato all’incarcerazione di Camillo, impartito precisi ordini al figlio. Fu nel carcere di Biella che il boss trasmise il potere al suo erede. Gli passò anche indicazioni e consigli per svolgere con autorità il suo ruolo di potere.

Camillo Belfiore è ora un uomo libero. Anche se sarà sottoposto a controllo di pubblica sicurezza ed avrà obbligo di soggiorno nel comune di Marcianise.

Il suo soggiorno nelle “patrie galere” è passato attraverso i carceri di Nuoro e di Ferrara.

Il clan dei Belfiore

La situazione in cui si trova il “clan” dei Belfiore (detto anche Mazzacane) è diversa da quando Camillo varcò la soglia del carcere, sei anni fa. Il sanguinario ed ex-cutoliano Domenico esercitava un potere autoritario. Ora la famiglia si trova in un certo senso decapitata dal pentimento dello zio di Camillo, Salvatore Belfiore. Il figlio di Salvatore, anch’egli di nome Camillo, collabora con la Giustizia. Gli arresti e le successive condanne sono state decine.

Lo stesso boss, Domenico, scarcerato nel 2015 dopo aver scontato la pena per la condanna quale mandante dell’omicidio di n’drangheta ai danni dell’ex procuratore capo di Torino Bruno Caccia, è tutt’ora agli arresti domiciliari in casa della moglie in un paesino del Piemonte.

L’omicidio dell’allora procuratore avvenne il 26 giugno del 1983. Un commando armato aprì il fuoco e trucidò il magistrato. Bruno Caccia era considerato un incorruttibile, e le ‘ndrine, che allora si dividevano il potere sul capoluogo piemontese con Cosa Nostra, se ne liberarono in modo violento.

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